In Vetrina

L’insolenza s’ingrassa sul servilismo

 

 

Prima pubblicazione: 21/12/2013

Un popolo di semianalfabeti

 Le attuali difficolta’ economiche e politiche sono in larga misura simili a quelle sperimentate da altri paesi; all’origine, io credo, c’e’ l’ascesa assoluta e  relativa della classe operaia (si consideri in modo speciale il caso della Gran Bretagna; si considerino i recenti massicci scioperi in Giappone, i cui sindacati erano presentati come modelli di autocontrollo e di disciplina). Tuttavia in Italia le difficolta’ assumono una gravita’ particolare per ragioni connesse con la nostra struttura sociale. Noi siamo un paese relativamente sviluppato dal punto di vista economico; ma siamo un paese arretrato dal punto di vista civile. Ho gia’ fatto osservare che il 70% della popolazione attiva del nostro paese possiede, al massimo, la licenza elementare: una percentuale che non trova riscontro in nessuno dei paesi considerati civili. E sappiamo che, con la licenza elementare, si possono fare solo lavori ripetitivi: salvo casi eccezionali, non si puo’ partecipare, neppure in forma modesta, alla gestione della cosa pubblica o dei partiti; di regola, non si puo’ neppure gestire la sezione di un partito di un piccolo comune. Con la licenza elementare ( che e’ il livello massimo di quel 70% ) si giunge a scrivere qualche lettera alla madre o alla fidanzata quando l’uomo e’ sotto le armi e a leggere un giornale sportivo. (certo gli autodidatti possono svilupparsi culturalmente anche con la sola licenza elementare; ma e’ ben difficile pensare che si tratti di un numero elevato di persone  quella percentuale e’ illuminante: spiega, da sola, perche’ le tirature dei giornali sono da noi vergognosamente limitate; spiega l’atteggiamento spesso arrogante e insolente dei piccoli burocrati, specialmente nelle zone piu’ depresse, dove, naturalmente, la percentuale dei semianalfabeti e’ ancora piu’ alta della media nazionale, come ben piu’ alta di quella ufficiale e’ la percentuale degli analfabeti totali o degli analfabeti di ritorno; spiega il basso livello della nostra vita politica (ciascuno di noi, in quanto uomo di parte, e’ incline a vedere le miserie culturali e morali negli altri partiti e ad essere  particolarmente indulgente con quelle del partito al quale appartiene o per il quale vota ); spiega – ma qui l’analisi diventa molto piu’ difficile – l’atteggiamento dei <<mandarini>> – di noi, piccoli e medi borghesi – che spesso inconsapevolmente tendono a trar vantaggio nei modi piu’ diversi dalla loro posizione di quasi monopolisti dell’istruzione media e superiore. E’ vero: l’afflusso nelle scuole medie e superiori delle nuove leve e’ sensibilmente maggiore che nel passato, cosi’ che quella percentuale ( 70%) va diminuendo;  ma la velocita’ con cui diminuisce ( poco meno di due punti l’anno ) non e’ grande: con una tale velocita’ solo fra due o tre lustri  arriveremo al livello attuale della Francia (circa il 45%) , che pure e’ fra i piu’ alti nell’ambito dei paesi civili. Ma allora, oltre ad essere un popolo di eroi, di santi, di poeti, di navigatori e di scienziati siamo anche, e innanzi tutto, un popolo di semianalfabeti? Dopo aver tolto di mezzo la storia degli eroi e degli scienziati – una espressione caratteristica della retorica piccolo-borghese – togliamo pure di mezzo ogni forma di feroce esagerazione autocritica; riconosciamo pure l’esistenza di una minoranza di persone civili, che oltre a non essere semianalfabete non sono neppure topi nel formaggio e non si preoccupano esclusivamente del proprio <<particulare>>; in quella minoranza – se proprio abbiamo deciso di tirarci su il morale – possiamo includere anche noi: me che scrivo, voi che leggete. Dopo aver fatto tutto questo, resta la fondamentale verita’ della risposta: si, le eccezioni sono eccezioni, le oasi non impediscono al deserto di restare deserto, anzi ne sono la conferma. Come massa, siamo un popolo di semianalfabeti; e cio’ ci condiziona tutti, in un  modo o nell’altro, nell’indurci in tentazione, ossia nel dar sfogo al nostro egoismo o nell’attuare una qualche forma di prevaricazione sociale; ci condiziona anche negli sforzi che possiamo fare per migliorare la situazione, sforzi faticosissimi e in gran parte, almeno a prima vista, inutili, o nello spingerci   verso atteggiamenti scettici o cinici e, nel fondo, quasi disperati. Quella percentuale e’ il piu’ grave atto di accusa  ai gruppi che si sono succeduti al potere nel nostro paese, alla cosi’ detta classe dirigente, in ultima analisi a noi stessi – chi legge questo scritto puo’ esser certo di appartenere alla frazione piu’ elevata del 30% dei privilegiati ( i laureati non raggiungono neppure il 4% della popolazione attiva). Come si concilia quella tremenda percentuale con l’esplosione scolastica, di cui tutti parlano?

Si concilia per diverse ragioni. In primo luogo, l’esplosione e’ tale, o appare tale, per la radicale insufficienza delle strutture scolastiche ( delle strutture molto piu’ che del personale). In secondo luogo, la mortalita’ scolastica e’ molto elevata: non sono pochi i ragazzi che frequentano una, due o tre classi delle  scuole medie inferiori senza giungere al diploma. In terzo luogo, l’aumento dei diplomati (o dei diplomandi ), certamente piu’ rapido che nel passato, incide solo lentamente sullo stock : l’Italia imperiale di Mussolini ci aveva lasciato il 90% di semianalfabeti. Ora siamo al 70%: un progresso e’ stato fatto; ma quanto e’ lunga la via! Il quadro e’ spaventoso se visto nei suoi termini quantitativi. Forse sarebbe ancora piu’ grave se si potessero esaminare a fondo gli aspetti qualitativi: i diplomi e le lauree di quel 30% di quasi-monopolisti, quale valore hanno? Possiamo tentare di ridurre l’angoscia pensando alla curva di Gauss, che domina in tutti i fenomeni sociali: una parte, non proprio piccola, delle scuole funziona, una parte, non proprio esigua, del personale insegnante e’ costituita da persone capaci e preparate. Tuttavia, la curva di Gauss va interpretata considerando l’altezza della moda e l’unita’ di misura, e forse e’ un bene che queste due quantita’ restino indeterminate. L’aumento nel numero dei diplomati e dei laureati e’ troppo lento sotto l’aspetto dello sviluppo civile, ma, al contrario, e’ troppo rapido con riferimento allo sviluppo economico, poiche’ l’espansione della domanda del lavoro intellettuale qualificato risulta inferiore all’espansione dell’offerta: il risultato e’ un aumento della disoccupazione intellettuale, sopratutto fra i giovani. Sia chiaro: l’accento posto sulle gravi carenze nel campo dell’istruzione non implica che queste carenze costituiscano la <<causa>> dell’arretratezza civile, oltre che economica, della nostra societa’: esse ne sono piuttosto un importante indicatore. ( D’altra parte, …….  – coloro che acquistano un grado di itruzione relativamente alto e poi non riescono ad ottenere le posizioni sociali cui aspirano o addirittura restano disoccupati, possono diventare causa di forti tensioni sociali). L’arretratezza civile risulta da tanti e tanti elementi, che possono essere efficacemente riassunti – ……… –  dal concetto di <<estraneita’>> delle masse dalla vita politica, estraneita’ quasi totale nel secolo scorso, ma tuttora ampia, essendo la partecipazione delle masse alla vita politica o circoscritta ovvero saltuaria ed episodica.

Tratto da: Saggio sulle classi sociali, di Paolo Sylos Labini  ( Prima edizione settembre 1974…….Nona edizione aprile 1982 )

 

Prima pubblicazione:20/2/2014

Articolo di Alberoni de 17/2/2014

Volevo vivamente segnalare il grandissimo articolo, nell’editoriale del lunedi’, “I maro’ e l’Italia vittima del colonialismo al contrario”, apparso oggi 17/2/2014 su il Giornale, scritto dal sign. Francesco Alberoni a proposito di quello che e’ l’Italia nella sua tragica realta’ di oggi.Condivido totalmente la sua analisi e quindi la soluzione inevitabile per rovesciare questa realta’. La domanda pero’ a cui vorrei il sign. Alberoni rispondesse e’ perche’ in un precedente articolo affermava che l’italia oggi non si puo’ permettere il lusso di avere un movimento come il M5S, visto che per fortuna, e finalmente,  i venti di quella rivoluzione che viene invocata ed oramai necessaria vengono proprio grazie al M5S, che fortemente ha dimostrato con inattaccabile coerenza di essere il solo protagonista della nuova scena politica italiana, capace di fare quella profonda pulizia di cui l’Italia oggi ha bisogno e farla diventare una nazione credibile e rispettabile a livello internazionale.

 

 

Prima pubblicazione:10/10/2014

Il problema non è la ricchezza ma la sua distribuzione

di Andrea Strozzi | 20 giugno 2014

Le severe posizioni sull’iniquità distributiva dell’indiscusso astro nascente della macroeconomia Thomas Piketty sono appena state affiancate ai precetti dell’ultima esortazione apostolica di Papa Francesco “Evangelii Gaudium” da S. Zabala, professore di filosofia dell’Università di Barcellona, nel bell’articolo “Piketty and the Pope: why Marx is back”. Lo stesso Pontefice, qualche settimana fa, ha posto i sigilli alla questione con questo tweet lapidario: “La disuguaglianza è la radice dei mali sociali”.Sulla scia di intellettuali di spessore planetario come N. Chomsky, il tema della distribuzione della ricchezza è agitato dai movimenti antagonisti di tutto il globo (Occupy Wall Street, Indignados…) e, conseguentemente, lo si può trovare persino sui vetrini dei microscopi di qualche illuminato ricercatore: poco più di un anno fa, utilizzando la teoria dei sistemi complessi, il semisconosciuto ricercatore geofisico B. Werner ha stupito la comunità scientifica internazionale riunitasi all’American Geophysical Union, dimostrando come le pulsioni sociali di matrice rivoluzionaria costituiscano l’unico (e ultimo) baluardo sistemico alla insaziabile voracità di quel capitalismo economico-finanziario che, per espandersi ipertroficamente su tutto il pianeta, ne sta distruggendo le risorse, compromettendone irreversibilmente la salute.E oltre all’economia, alla religione e alla scienza, ci si mette pure la sociologia! E’ infatti lo stesso Z. Bauman a ricordarci come il Potere (divenuto globale), dopo aver spodestato la Politica (rimasta locale), stia lentamente svuotando l’individuo di ogni residua carica vitale, depotenziandolo intimamente e relegandolo a mera comparsa di quel processo compulsivo e incontrollato che ha nome “consumismo”. O, meglio, controllato da quelle ristrettissime élite di potere che, concentrando nelle proprie mani flussi di ricchezza progressivamente crescenti, stanno restringendo l’accesso al benessere per la restante popolazione.

Delirante fantapolitica d’ispirazione Orwelliana? Giudicate voi:

  • Dallo scoppio della crisi, il numero di super-ricchi a livello mondiale è costantemente aumentato, passando dagli 8,6 milioni di individui del 2008, agli oltre 12 milioni del 2012.
  • Nei soli USA – chehanno recentemente perso il primato del ceto medio più abbiente al mondo – il più ricco 10% della popolazione detiene l’85% della ricchezza finanziaria complessiva.
  • Neanche noi sfiguriamo: la stessa Banca d’Italia attesta che il patrimonio dei dieci italiani più ricchi equivale a quello dei tre milioni più poveri.

 

Più che statistiche, questi numeri sono bollettini di guerra! Per minimizzarne la portata, i vassalli del neoliberismo sono soliti affidarsi al mantra dell’alta marea: quando l’acqua sale, sia gli yacht che le barche a remi si alzano. Cioè: la società sarà anche iniqua, ma quando la torta cresce, aumentano anche le briciole per i figli della serva. Come stiamo per vedere, questa favoletta è però ormai indifendibile…

Nel 2009 gli epidemiologi R. Wilkinson e K. Pickett hanno infatti pubblicato un saggio troppo pericoloso per essere divulgato dai circuiti mainstream. Nel bellissimo “La misura dell’anima” i due ricercatori, applicando alle scienze sociali metodi statistici da laboratorio, dimostrano come l’iniquità distributiva del reddito sia il fattore scatenante del deterioramento di un set di nove indicatori socio-sanitari riferiti alla qualità della vita (fiducia sociale, disagi psichici, speranza di vita, obesità, rendimento scolastico, gravidanze minorili, criminalità, carcerazione, mobilità professionale).

Le evidenze del loro studio certificano come la bontà di queste metriche non dipenda dal reddito nazionale medio (Pil procapite), ma da come questo è distribuito nella popolazione. Il peggioramento della qualità della vita risulta cioè strettamente legato all’ampliarsi delle disuguaglianze distributive e, simmetricamente, i paesi con minori problematiche socio-sanitarie sono anche quelli in cui il reddito è più equamente distribuito. Ciò significa che in un paese più povero, ma più equo, si vive meglio che in uno più ricco ma con maggiori disuguaglianze. Sono evidenze che fanno tremare i polsi, ed è per questo che non ne avete mai sentito parlare.

Che fare, allora? All’attuale stato delle cose, non esistono più spazi per la mediazione. Né, temo, per la compostezza. Occorrono pensieri, parole e persone nuove. Illuminate, agguerrite, consapevoli. Occorre una presa di coscienza collettiva che trovi il coraggio di sbarazzarsi dei retaggi di un passato irripetibile. Prassi e concetti come quelli di “diritti acquisiti”, “paracaduti sociali”, “minimi garantiti” o altra polverosa terminologia ereditata dal secolo scorso, vanno rimossi quanto prima. Questo, però, non deve avvenire consolando una tantum (magari con 80 Euro…) chi oggi, a quelle mangiatoie, non può più sfamarsi. Ma deve avvenire mediante una forzosa compensazione intergenerazionale e interpatrimoniale, che agisca sui privilegi e sulle sostanze sin qui accumulate, per trasferirle ex-lege all’ambiente e alla comunità, alimentando un modello fondato sul benessere di molti a discapito della ricchezza di pochissimi. Se questi meccanismi redistributivi dovessero confliggere con l’effimero istituto che amiamo chiamare Diritto, poco male: lo si cambierà. Anche perché, se ha permesso che si arrivasse a questo punto, forse non si trattava propriamente di… Diritto.

Sono considerazioni inattuali e indigeste, lo so. Ma necessarie. Per stimolare quell’imperioso risveglio delle coscienze di cui c’è bisogno.

 

Prima pubblicazione:20/12/2015

1995-2015 An, dopo l’illusione di una destra al governo il fallimento per manifesta incapacità

C’era il programma, c’erano gli ideali, c’era tutto quel che occorreva per cambiare in meglio l’Ialia… Non c’erano gli uomini

di Mario Bozzi Sentieri

Vent’anni fa, dal 25 al 29 gennaio 1995, nasceva, a Fiuggi,  Alleanza Nazionale. Non una data ed un avvenimento “qualunque”, per  chi c’era, per chi partecipò, da lontano, a quell’evento, per tutta l’Italia.Con quell’appuntamento congressuale si compiva una piccola rivoluzione, una “rivoluzione all’italiana”, senza spargimenti di sangue, senza lacerazioni, né traumi civili, ma pur sempre una “rivoluzione”, partita dal voto del 27-28 marzo 1994, con la fine, almeno formale,  del sistema dei partiti che aveva segnato le vicende nazionali del cinquantennio precedente , il cinquantennio della “Prima Repubblica”.Per la destra politica, ma non solo per essa, si voltava pagina.Sulle ragioni di quella “rivoluzione” vale la pena riportare quanto affermava allora, con sintesi efficace, Ernesto Galli della Loggia (in Intervista sulla destra, Laterza, Bari 1994): “Uno Stato efficiente, attento all’economicità ed alla qualità dei servizi, non più cieco e costosissimo erogatore di tutto a tutti, non più burocratico regolatore di ogni cosa, una prospettiva ideologico-politica da società dei due terzi, un’inversione di massa alle culture politiche della Prima Repubblica ed ai loro apparati di partito: ecco le linee lungo le quali avviene la vittoria della destra alle elezioni del 1994. E’ una vittoria di sapore e di significato tutt’altro che  conservatore. E’ la sinistra, semmai, come osserva Vattimo, che ‘ha difeso l’ordine costituito’, mentre la destra si presenta come rivoluzionaria’”.Con il “Congresso di Fiuggi”, dopo la vittoria elettorale del “Polo delle libertà”, di cui An era componente essenziale, insieme a Forza Italia e alla Lega Nord, si sanciva l’idea di dare finalmente concreta realizzazione ad idee e valori per anni marginalizzati e considerati “impresentabili”, insieme ad una classe politica tenuta ai margini della vita nazionale, nonostante l’investitura democratica.Ordine, legalità, rigore, merito, senso dello Stato, giustizia sociale, partecipazione, identità nazionale, destini comuni, coesione , ruolo della famiglia: le tesi congressuali furono una declinazione “alta” di queste idee, segno di un ambiente che aveva ben colto il mutare dei tempi e per questo si era messo in gioco, guardando alle nuove sfide epocali (“Pensiamo l’Italia – Il domani c’è già” era il titolo del documento congressuale) piuttosto che attardarsi sulla difesa identitaria e sul passato (rappresentati dalla gloriosa  esperienza del Msi e dalla stagione neofascista).A vent’anni dal Congresso di Fiuggi che cosa rimane di quella esaltante e controversa stagione ?  Soprattutto tanta delusione e una ancora non  chiara consapevolezza per gli errori compiuti.Chi c’era, chi ha condiviso quel progetto, non può nascondersi quanto poi accadde,  con il costante sfarinarsi dei riferimenti “fondativi” e con il venire meno degli impegni programmatici. Da allora, anno dopo anno, ci si è lentamente “assuefatti”: alla logica delle alleanze e dei compromessi, alla politica-del-giorno-per-giorno,  priva di slanci e visioni epocali, alla perdita di contatto con il “Paese reale”, in nome della “ragione politica”, al “pensiero debole”, segno di un’identità sbiadita, alle piccole logiche spartitorie, se non – in taluni casi – alla vera e propria corruzione. La“comunità di destino” ha lasciato il campo agli interessi di gruppo. La militanza ha abdicato al tornaconto. Il partito “pensante e pesante” è stato via via sostituito dai comitati elettorali. Ed allora addio al domani, che “c’è già” – per dirla con le tesi di quel lontano 1995 –  o che “appartiene a noi”, come cantava l’ inno alla gioia e alla speranza della gioventù “alternativa”.Lo “spirito di Fiuggi”, malgrado vari tentativi per resuscitarlo, è bello che morto. A ucciderlo è stata soprattutto l’inadeguatezza di quella destra, della sua classe dirigente, ma non solo, a trasformare veramente le idee in azioni (di governo), con il conseguente disamoramento d’ambiente e la perdita di fiducia da parte degli elettori.Ricordare quel congresso del 1995 non è però un’operazione “nostalgia”. Vent’anni dopo, da Fiuggi la destra politica deve comunque ripartire, non certo per ripercorrere esperienze già fatte e per cercare di recuperare un ambiente ancora segnato dalla diaspora, ma per capire gli errori fatti, per interrogarsi realmente sulle proprie inadeguatezze (evitando di “scaricare” su Gianfranco Fini, che pure ci ha messo molto del suo, tutte le responsabilità), per uscire fuori dal tunnel dell’inedia in cui si è cacciata.In fondo, a questo, in politica, devono servire gli anniversari. Non per fare del facile reducismo, ma per guardare al domani, nella consapevolezza degli errori compiuti e con la speranza che qualcuno, tolte quelle macerie politiche, torni a costruire.

 

 

D O V E   E R A V A M O   R I M A S T I !!!!

A n t e n o v i s    r i t o r n a